REPUBBLICA. Al tirar delle somme, gli ex deputati dell’Ars (e i loro familiari) l’hanno fatta franca ancora una volta. In Sicilia è scaduto a fine 2016 il termine di applicazione del contributo di solidarietà sui vitalizi. Tre anni di tassazione delle pensioni degli onorevoli cessati dal mandato, suggeriti dall’austerity e dall’esigenza di ridurre i costi della politica, un provvedimento chiesto nell’ottobre del 2014 dalla conferenza dei presidenti delle assemblee. Ma un provvedimento che, nel confronto con quanto fatto dalle altre Regioni, nell’Isola si è rivelato più o meno un bluff.
Il “taglio”, infatti, alla fine ha riguardato solo una ventina fra i titolari dei vitalizi o degli assegni di reversibilità, su un totale di circa 320. Il numero, ovviamente, è variabile perché nel corso del triennio alcuni sono morti e altri invece sono entrati nell’elenco. Ma la percentuale degli ex onorevoli colpiti dalla misura di contenimento rimane quella: il 7 per cento. Un’inezia. E questo perché l’Ars, pur avendo anticipato le altre Regioni nell’applicazione del contributo, l’ha fatto, in nome del solito allineamento al Senato, a modo proprio: importando in modo integrale il decreto Letta del 2013, che chiede un sacrificio ai dipendenti pubblici che percepiscono una pensione superiore a 91mila euro (quattordici volte il trattamento minimo Inps). Ciò significa che, nella vasta platea di ex inquilini di Palazzo dei Normanni, ha dovuto pagare dazio solo chi ha un vitalizio superiore ai 7.500 euro mensili. In pratica, sotto la tagliola sono finiti solo coloro che hanno fatto quattro legislature. E hanno versato cifre non eccezionali: perché il decreto Letta prevede solo una tassa del 6 per cento alle pensioni fra i 91mila e i 130mila euro. Secondo questo parametro, per fare un esempio, tre ex deputati come Mario Mazzaglia, Salvatore Natoli e Luciano Ordile (tutti con vitalizi attorno ai 10mila euro lordi mensili) hanno pagato un contributo da 160 euro.
Si sono “salvati”, invece, parlamentari a riposo con assegni pesanti o ex deputati che hanno conseguito il vitalizio grazie a una militanza a Sala d’Ercole inferiore a una legislatura. O, ancora, l’hanno scampata i parenti degli onorevoli defunti, in una terra che vede ancora 130 eredi percepire un vitalizio, fra i quali nove fra mogli e figli di eletti nella prima consultazione del 1947. L’Ars, il Consiglio regionale più antico d’Italia (le altre Regioni sono nate nel 1970), oggi paga dieci milioni di euro l’anno per 190 vitalizi diretti e otto per i 130 assegni di reversibilità.
Nelle altre Regioni è andata diversamente. Friuli, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Trentino, Val d’Aosta e Veneto sono intervenuti non per applicare il decreto Letta ma con proprie leggi che hanno previsto una tassazione estesa a tutti. Nel Lazio, dal novembre del 2014, paga un contributo dell’8 per cento anche il consigliere che percepisce meno di 1.500 euro al mese e chi guadagna oltre seimila euro si vede applicare una tassa del 17 per cento. In Lombardia pagano i consiglieri con più di 1.500 euro lordi al mese e chi ne guadagna più di 4.500 versa 395 euro, più il 16 per cento della somma sopra la soglia.
Trattamenti ben diversi, com’è facile intuire, da quelli dell’Ars. L’amministrazione fa sapere di avere incassato circa sei milioni di euro dal contributo di solidarietà, ma si tratta di una cifra proveniente soprattutto dai prelievi fatti sulle pensioni d’oro dei dirigenti: in Assemblea ci sono ex burocrati con assegni di quiescenza che arrivano a mezzo milione l’anno.
Insomma, un
Parlamento che dà un segnale ambiguo, malgrado negli anni scorsi siano state adottate misure di contenimento come l’abolizione dei vitalizi (a partire dal 2011), l’innalzamento a 60 anni dell’età pensionabile, il taglio agli stipendi dei deputati (in linea con le disposizioni nazionali) o il tetto ai compensi dei dirigenti (240mila euro lordi). Ma sulla “tassa” sulle pensioni politiche l’Ars ha avuto mano lieve. Per una carezza impercettibile.
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