[embed_video id=97013]Commemorato al Tribunale di Caltanissetta, nell’aula a lui dedicata, Gaetano Costa , Procuratore Capo di Palermo all’inizio degli anni ottanta. Fu assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, sita in un marciapiede di via Cavour a Palermo, a due passi da casa sua, freddato da tre colpi di pistola sparatigli alle spalle da due killer in moto.
Probabilmente, il procuratore nisseno sapeva di essere in pericolo. Non poteva non essersi accorto, nei mesi precedenti, della morte di altri importanti uomini dello Stato che stavano combattendo la mafia. La condanna a morte per Gaetano Costa molto probabilmente era arrivata qualche mese prima dell’omicidio. Siamo nel maggio del 1980, sono trascorsi pochi giorni dall’uccisione del capitano Emanuele Basile e il procuratore capo di Palermo si ritrova sulla scrivania un rapporto sui traffici di droga che lega le famiglie che Inzerillo, Spatola e Gambino. Dopo aver valutato attentamente quelle carte, Costa si convince a firmare circa cinquanta mandati d’arresto nei confronti di tali famiglie mafiose impegnate nel business della droga. Queste famiglie avevano utilizzato i proventi delle sostanze stupefacenti nel settore dell’edilizia e delle costruzioni. E’ proprio in questo momento che giunge l’isolamento da parte dei suoi colleghi. Alcuni suoi sostituti non sono d’accordo con Costa e, facendo leva anche sugli organi di stampa, dichiarano apertamente di non aver firmato quei mandati d’arresto. Nonostante ciò, Costa va avanti con coraggio e si assume la responsabilità di mandare in carcere i mafiosi.
Nessuno è stato condannato, ad oggi, per l’omicidio dell’ex procuratore capo di Palermo. Da più parti si sostiene che la responsabilità del delitto non sia da attribuire ai corleonesi ma alla fazione opposta, in particolare a quella facente capo a Salvatore Inzerillo. Le cosche mafiose palermitane potrebbero aver eliminato Costa non soltanto per via di quei mandati di cattura ma anche per mandare un segnale forte ai corleonesi e dimostrare loro che anche la mafia di Palermo avrebbe potuto attaccare lo Stato in maniera frontale. Queste sono solo alcune delle ipotesi. Difficile, infatti, dimenticare le delicate indagini che stava svolgendo il magistrato sugli investimenti economici della mafia. Si sa bene che, quando ci sono di mezzo i soldi, la mafia ha bisogno della connivenza anche del mondo imprenditoriale e politico.
Gaetano Costa nacque a Caltanissetta, dove studiò fino al conseguimento della licenza liceale, laureandosi poi nella Facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Sin da ragazzo aderì al Partito Comunista allora clandestino. Dopo aver vinto il concorso in Magistratura fu arruolato come Ufficiale nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. L’8 settembre raggiunse la Val di Susa unendosi ai partigiani che ivi operavano. All’inizio degli anni quaranta fu immesso in servizio in Magistratura, prima presso il Tribunale di Roma; successivamente, su sua richiesta, fu trasferito alla Procura della Repubblica di Caltanissetta dove restò dal 1944 al 1965[2].
In quella Procura espletò la maggior parte della Sua attività di magistrato, da sostituto procuratore prima e da Procuratore Capo poi, dando sempre chiare manifestazioni di alta preparazione professionale, indipendenza, ed equilibrio. Nonostante il carattere apparentemente freddo e distaccato e la poca inclinazione ai rapporti sociali, gli fu sempre unanimemente riconosciuta una grande umanità ed attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Sin dagli anni sessanta, come risulta dalla sua deposizione alla prima Commissione Antimafia, intuì che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere.
Inutilmente, all’epoca, richiamò l’attenzione delle massime autorità sul fatto che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 fu nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al luglio di quell’anno. Insediandosi, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, fece la seguente dichiarazione:
“Vengo, disse, in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Nel breve periodo di sua gestione della Procura di Palermo avviò una serie di delicatissime indagini nell’ambito delle quali, sia pure con i limitati mezzi all’epoca a sua disposizione, tentò di penetrare i santuari patrimoniali della mafia.
Di lui scrisse un suo sostituto che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”. Alle 19:30 del 6 agosto 1980, mentre passeggiava da solo ed a piedi, morì dissanguato sul marciapiede di via Cavour a Palermo.[2] Al funerale parteciparono poche persone soprattutto pochi magistrati.[2] Non va dimenticato che, pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”.